Teologia biblica
Quattro Principi Biblici per la Contestualizzazione
La contestualizzazione è uno degli argomenti più spinosi per la missione oggi. In parole povere, la parola ‘contestualizzare’ viene usata per descrivere il processo del rendere il vangelo e la chiesa il più familiare possibile per un dato contesto culturale.
I cristiani occidentali tendono a pensare che la contestualizzazione sia solo qualcosa che i missionari fanno ‘laggiù’, e tanti cristiani nel mondo occidentale si preoccupano per quanto le chiese non occidentali a volte contestualizzino il vangelo in maniera più o meno radicale. La realtà è che ogni cristiano in vita oggi è attivamente coinvolto nella contestualizzazione. Ogni cristiano europeo loda in una chiesa contestualizzata. La domanda quindi non è se contestualizzare o no. In tanti modi diversi, che sia in Europa o nel sud est asiatico, ogni credente in vita contestualizza il vangelo e la chiesa alla loro cultura, poiché nessuno di noi è un ebreo del primo secolo d.C.
La questione da considerare è quindi se ogni credente e chiesa decideranno di contestualizzare nel modo giusto. Chiunque non riconosca che la contestualizzazione è una realtà ovunque fallirà nel realizzare questo biblicamente, e ciò significa che queste persone contestualizzeranno in maniera probabilmente sbagliata. Il sincretismo può avvenire facilmente sia in Italia sia in Indonesia!
Per prima cosa dobbiamo riconoscere che le scritture – non la nostra esperienza – sono lo standard tramite il quale tutte le cose devono essere valutate. Le scritture sono infallibili, autorevoli e sufficienti. Se le scritture danno un comando, proibiscono qualcosa, o tracciano un modello vincolante, allora la questione è chiusa. Quando la parola di Dio traccia dei confini non dobbiamo scavalcarli. All’interno di questi confini non c’è niente di particolarmente sacro sul modo in cui facciamo le cose. Nel corso dei secoli e in diverse parti del mondo ci sono state altre espressioni culturali del cristianesimo che sono state fedeli alle scritture quanto le nostre. La chiave è lasciare che la Bibbia sia il nostro giudice, e permettere al corpo di Cristo globale di proclamare la parola di Dio nei nostri specifici punti ciechi.
Il processo di contestualizzazione in realtà inizia con lo stesso Nuovo Testamento. Forse il testo più citato a riguardo è quello di I Corinzi 9. Il resto di questo articolo trarrà da questo testo i quattro principi per una fedele contestualizzazione.
- Paolo rinunciò ai suoi stessi diritti
Il fulcro di questo passo è nel verso 12: “Se altri hanno questo diritto su di voi, non lo abbiamo noi molto di più? Ma non abbiamo fatto uso di questo diritto; anzi sopportiamo ogni cosa, per non creare alcun ostacolo al vangelo di Cristo.” La passione di Paolo era l’avanzamento del vangelo. Egli non voleva che niente di non necessario costituisse un ostacolo per il raggiungimento di questo obiettivo. Paolo era disposto a sopportare ogni disagio o sfida personale per far sì che il vangelo si spargesse in maniera efficace, compreso il non usufruire dei suoi stessi diritti. Per esempio, egli poteva mangiare carne, prendere una moglie credente e ricevere supporto finanziario. Non avrebbe peccato se avesse fatto anche una di queste cose. E altri apostoli usufruirono di questi diritti. Anche quando rifiutò di compromettere qualunque verità biblica o ordine nel processo, Paolo rinunciò ai suoi diritti di sua spontanea volontà per non porre nessun ostacolo al vangelo.
Come credenti occidentali per noi è molto difficile considerare questo. Siamo cresciuti e istruiti a reclamare i nostri diritti. Siamo persone libere e abbiamo il ‘diritto’ di fare un sacco di cose che potrebbero essere molto offensive in un altro contesto culturale: indossare le scarpe in casa, mangiare o toccare qualcuno con la mano sinistra, costruire un recinto intorno al nostro giardino senza il permesso del leader della nostra comunità, o andarsene da una festa di compleanno prima che il riso venga servito. Abbiamo il ‘diritto’ di indossare cosa vogliamo, mangiare qualunque cosa vogliamo, decorare le nostre case nel modo in cui vogliamo. Allo stesso tempo non c’è nessun comando biblico che ci chiede di fare alcuna di queste cose. La questione nell’esercitare questi diritti non sono la nostra obbedienza a Dio, ma le nostre comodità. Se qualunque cosa che io faccio, a parte ciò che mi comanda la parola di Dio, rende più difficile ai musulmani, indù, o atei di ascoltare il vangelo, allora devo essere disposto a rinunciare a questi privilegi volontariamente.
- Paolo era un servo dei non credenti
Come seconda cosa, Paolo si è fatto servo dei non credenti. Nel verso 19 scrive “Poiché, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti, per guadagnarne il maggior numero.” Qui Paolo non parla del servire i cristiani ma del servire chi deve essere conquistato dal vangelo. Non solo egli scelse di rinunciare ai suoi diritti ma Paolo andò oltre e scelse di porsi al di sotto di coloro che cercava di raggiungere col vangelo e di essere loro servo.
Quando stiamo vivendo l’agonia dello ‘shock culturale’ spesso vogliamo solo far conoscere la verità alle persone ma non vogliamo servirle. Gesù stesso, però, è venuto sulla terra non per essere servito, ma per servire. Ha servito peccatori, persone che si erano ribellate contro di lui e che lo avrebbero ucciso. Paolo comprese la volontà del suo signore fino a questo punto. Prendere la posizione del servo riflette il carattere di Cristo. Questo manda in frantumi tutti gli stereotipi e fa crollare ogni barriera. Servire è una caratteristica fondamentale di un ministero cross-culturale che sia effettivo, e paradossalmente, il servizio definisce il modo in cui noi siamo disposti a usare la nostra libertà in Cristo.
- Paolo viveva come quelli cui evangelizzava.
Come terza cosa, Paolo s’identificava con le persone che tentava di raggiungere, e adattava il suo stile di vita al loro più che poteva ma sempre senza compromettere la legge di Cristo:
“Poiché, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti, per guadagnarne il maggior numero; con i Giudei, mi sono fatto giudeo, per guadagnare i Giudei; con quelli che sono sotto la legge, mi sono fatto come uno che è sotto la legge (benché io stesso non sia sottoposto alla legge), per guadagnare quelli che sono sotto la legge; con quelli che sono senza legge, mi sono fatto come se fossi senza legge (pur non essendo senza la legge di Dio, ma essendo sotto la legge di Cristo), per guadagnare quelli che sono senza legge. Con i deboli mi sono fatto debole, per guadagnare i deboli; mi sono fatto ogni cosa a tutti, per salvarne ad ogni modo alcuni. E faccio tutto per il vangelo, al fine di esserne partecipe insieme ad altri.” (1 Cor. 9:19-23)
Se c’è mai stata una cultura che si poteva considerare intrinsecamente più ‘divina’ delle altre, questa era la cultura ebraica. Paolo aveva certamente il diritto di mantenere la sua eredità culturale ebraica. Allo stesso tempo, però, Paolo era stato liberato dal peso della legge. In ogni caso, con gli ebrei egli si comportava come un ebreo e con i gentili si comportava come un gentile. Con chi era più debole e con chi aveva determinati scrupoli biblici Paolo viveva nei limiti di questi scrupoli. È diventato chiunque le persone volessero che fosse allo scopo di far si che essi fossero salvati. Si è identificato con i popoli che stava cercando di raggiungere. Ha adattato il suo stile di vita al loro in ogni cosa che potesse essere usato come un pretesto per non ascoltare il vangelo. Paolo ha considerato il vangelo come qualcosa di molto più prezioso dei suoi diritti, delle sue comodità e della sua cultura. Se c’era qualcosa di offensivo nel suo modo di presentare il vangelo egli faceva in modo che l’unica offesa venisse dalla croce, non da un’offesa a motivo culturale.
- Paolo era legato alla Bibbia.
Quarto, Paolo rientrava sempre nei vincoli della scrittura. Quando parlava di adattamento e di identificarsi con altri popoli, egli aggiunse tra parentesi al verso 23: ‘pur non essendo senza la legge di Dio, ma essendo sotto la legge di Cristo’.
Anche se libero da ogni requisito prescritto dalla legge cerimoniale e dalla pena per il non seguire la legge di Dio in maniera perfetta, Paolo considerava sempre se stesso come sotto l’autorità di Dio espressa nella sua parola. La Bibbia – attraverso la teologia, visione del mondo, comandi e principi – pone dei limiti al suo adattamento per raggiungere i popoli.
Lo stesso deve essere applicato a noi. Ogni cultura umana riflette la grazia che ci accumuna, ma ogni cultura riflette anche la natura corrotta dell’uomo. Perciò non dobbiamo adattarci a cose che contraddicono le scritture. L’interpretazione di Paolo di questo principio è chiaro. Paolo rifiutò di adattare la parola di Dio alla ‘saggezza’ popolare della visione ellenistica del mondo perché comprendeva che essa negava il cuore del vangelo, anche se poteva suonare raffinata e ragionevole. Paolo non ha mai tollerato diversità d’interpretazione o aggiustamenti in questioni dottrinali. Paolo non ha certo tollerato l’immoralità della società di Corinto. Le culture umane e le tradizioni sono negoziabili. La parola di Dio non lo è. Mai.
Conclusione
La contestualizzazione è inevitabile e necessaria. Il vangelo può – e deve – essere ‘a casa’ in ogni cultura. Dobbiamo identificarci con chi cerchiamo di raggiungere e adattarci alla loro cultura, non importa se ciò ci causa del disagio. Allo stesso tempo però il vangelo sfida e condanna ogni cultura in qualche punto (anche la nostra). Se la Bibbia traccia un confine, allora noi dobbiamo rispettare quella linea. L’obiettivo della contestualizzazione non è la comodità, ma la chiarezza. Il vangelo non sarà mai comodo in una cultura decadente o per nessun essere peccaminoso. Il nostro scopo è fare in modo di non porre altri ostacoli al vangelo, ma che l’unica pietra d’inciampo sia la croce stessa, e che il significato di quella croce sia chiaro a tutti.
Nota dell’editore: Questo articolo è apparso originariamente su 9marks.org
Traduzione a cura di Gloria Leccese.
Tradotto da Coram Deo in Italia. Visita il loro sito per accedere alle risorse disponibili.