Teologia biblica
La diagnosi: oggi c’è troppa retorica nelle prediche
La diagnosi: oggi c’è troppa retorica nelle prediche (parte prima)
Nell’associazione di chiese a cui appartengo (la Southern Baptist Convention) la lotta per l’inerranza delle Scritture parrebbe vinta. Eppure né noi né le altre denominazioni o chiese evangeliche che dicono di aver conseguito un tale traguardo, dovremmo cantar vittoria così presto. Oggi, le chiese conservatrici, pur sostenendo con forza l’inerranza delle Scritture, sono sovente vittime di un’altra insidia, quella di disconoscere la sufficienza della Parola di Dio. La triste verità è che, nonostante le Scritture siano l’inerrante Verbo di Dio, non riusciamo ancora a predicarle seriamente dai nostri pulpiti. Nell’epoca attuale, in molte chiese evangeliche c’è necessità della Parola di Dio.
Ormai, sempre più frequentemente, ai sermoni vengono dati dei titoli eccentrici, che ricordano quelli di alcune serie televisive come Gilligan’s Island, Bonanza o Mary Tyler Moore.1 La predicazione spesso viene imperniata su cosa fare per avere un matrimonio di successo o sul come educare i nostri bambini nella società contemporanea. Ora, nessuno nega che i sermoni sui problemi familiari siano opportuni e persino necessari. Malgrado ciò, parallelamente a questa situazione, assistiamo all’insorgere di due grossi problemi. Innanzitutto, una diffusa noncuranza su quello che le Scritture dicono riguardo a certi argomenti. Sono assai sporadici i sermoni sul matrimonio che ripropongono, fedelmente e con il dovuto entusiasmo, ciò che Paolo dice sui rispettivi ruoli degli uomini e delle donne (Ef. 5:22-33). O siamo di quelli che sono imbarazzati da ciò che dicono le Scritture?
C’è poi un altro particolare, se possibile ancor più preoccupante: quei sermoni vengono quasi sempre predicati in maniera routinaria. Sono l’elemento con cui iniziano e finiscono le settimane della comunità, cosicché la visione teologica del mondo, dalla quale è permeata la Parola di Dio e che costituisce il fondamento di tutta la vita, risulta svilita e passa in sordina. I pastori si trasformano in tanti moralisti, dispensando a destra e a manca, culto dopo culto, consigli sul come vivere una vita felice. Molte assemblee non si rendono conto di ciò che sta accadendo, perché la patinata vita morale proposta da questi sermoni, trova parziale corrispondenza nelle Scritture, cercando di soddisfare bisogni avvertiti sia dai credenti che dai non credenti. I pastori, inoltre, ritengono di dover riempire le prediche con aneddoti e illustrazioni varie, in modo da sottolineare il pensiero morale che intendono esporre. Il fatto è che ogni buon predicatore può senz’altro servirsi di storielle o di illustrazioni pratiche per imprimere nell’uditorio l’elemento centrale del proprio sermone. Ma il pericolo è che le prediche si ingolfino talmente di racconti esemplificativi, da risultare svuotate di qualsiasi contenuto teologico.
Mi è giunta notizia che certi credenti evangelici affermano sempre più spesso che le loro chiese stanno facendo progressi nella teologia perché i fedeli non si lamentano di ciò che noi pastori insegniamo loro. Una simile osservazione deve allarmarci. Come pastori, abbiamo la responsabilità di proclamare “tutto il consiglio di Dio” (Atti 20:27) e non possiamo fare affidamento sui sondaggi di chiesa per capire se stiamo ottemperando alla nostra chiamata. Dobbiamo piuttosto basarci su ciò che dichiarano le Scritture. Può darsi che una congregazione non abbia mai ricevuto il serio insegnamento della Parola di Dio, sì da non capire dove noi, in qualità di pastori, stiamo fallendo. L’apostolo Paolo preannunciò “si introdurranno fra di voi lupi rapaci, i quali non risparmieranno il gregge” (Atti 20:29). E, altrove, “verrà il tempo che non sopporteranno più la sana dottrina, ma, per prurito di udire, si cercheranno maestri in gran numero secondo le proprie voglie, e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole” ( 2 Tim 4:3-4).
Se misuriamo la nostra predicazione sulla base di ciò che desiderano le comunità, spianiamo il terreno alla comparsa di qualche convinzione erronea. Non dico che le nostre chiese siano diventate eretiche, ma semplicemente che il banco di prova dell’ortodossia dei nostri insegnamenti deve essere la Parola di Dio, e non l’opinione popolare. Dio ha stabilito che il pastore deve nutrire il gregge con la Parola di Dio e non compiacendo le persone, facendo loro sentire quel che vogliono sentire. E’ ormai cosa di tutti i giorni, il fatto che le nostre congregazioni sono inadeguatamente ammaestrate da chi ha ricevuto il ministero della predicazione. Ora, immaginate cosa succederebbe se una comunità venisse regolarmente indottrinata solo con insegnamenti moralistici. I fedeli imparerebbero a essere garbati, a perdonare, ad amare, ad essere dei buoni mariti o delle brave mogli (tutte cose buone, per carità!). I loro cuori ne sarebbero sicuramente riscaldati ed edificati. Ma se trascuriamo il fondamento teologico, il lupo dell’eresia sarà sempre in agguato. Come? Non perché il pastore sia un apostata, anzi, può benissimo essere un uomo consacrato e fedele alla sua teologia. Eppure, egli potrebbe essere che egli creda di fare teologia nella propria predicazione, omettendo di esporre al suo gregge l’autentica teologia biblica. Entro una o due generazioni, quella comunità, più o meno inconsapevolmente, avvertirà il bisogno di designare alla propria guida un pastore più tollerante. Questo nuovo pastore predicherà anch’egli che le persone devono essere altruiste, affabili e amorevoli. Porrà enfasi sull’importanza dei matrimoni riusciti e di un mènage familiare sano e dinamico. Il risultato sarà che chi siede nel banco non riuscirà nemmeno a distinguere la differenza, dal momento che la teologia del pastore conservatore che lo ha preceduto sembrava proprio teologia. E in un certo senso lo era, perché il pastore conservatore non avrà mai proclamato o predicato una teologia personale. Questo perché il egli credeva nell’inerranza delle Scritture, ma non nella loro sufficienza, non avendo mai predicato alla sua congregazione tutto ciò che esse insegnano. E’ che la nostra ignoranza in materia di teologia biblica tende continuamente a manifestarsi. Negli ultimi dieci anni, mi vengono in mente due occasioni (una delle quali si verificò in un grande stadio, dove intervenne un predicatore di cui non ricordo il nome) nelle quali l’oratore invitò le persone a farsi avanti. Il sermone predicato in quel luogo doveva essere evangelistico, ma, in tutta onestà, posso dire che, in realtà, c’era tutto, fuorché il vangelo. Ad esempio, non fu detto nulla riguardo al Cristo crocifisso e risorto, o sul perché Egli fu crocifisso e risuscitò. Non fu detto nulla neanche sul perché è la fede, e non le opere, che salva.
Molti si fecero avanti e, senza dubbio, vennero reputati dei nuovi convertiti. Io, invece, scuotevo il capo, chiedendomi cosa stesse veramente accadendo. Pregavo che, in quella folla, almeno qualcuno si fosse davvero convertito, magari perché già a conoscenza del messaggio evangelico, avendolo ascoltato in altre occasioni. La stessa circostanza si ripresentò durante un culto in una chiesa che visitai. Il predicatore rivolse all’adunanza un accorato appello a “farsi avanti” per “essere salvati”, senza però dare alcuna spiegazione in merito al vangelo! Questo tipo di predicazioni incrementa il numero di persone “non nate di nuovo” nelle nostre chiese, che, in seguito, diventeranno elementi doppiamente pericolosi, essendo stati illusi dai loro pastori di essersi ravveduti e di non perdere la loro salvezza, laddove, nella realtà, permangono in uno stato di perdizione. Da quel momento in poi, quelle persone, settimana dopo settimana, ascolteranno un “altro vangelo”, appositamente confezionato per i tempi postmoderni che stiamo vivendo, improntato al pieno rispetto dell’identità religiosa, oggi si direbbe del politically correct, i cui precetti impongono la regola del “sii sempre accondiscendente”.
La prognosi: che cosa è teologia biblica (parte 2)
La soluzione ai problemi di una predicazione superficiale descritta nella prima parte è davvero elementare: i pastori devono imparare come usare la teologia biblica nella loro predicazione. E’ quindi conveniente cominciare chiedendosi: cos’è la teologia biblica?
Teologia biblica e teologia sistematica
La teologia biblica, a differenza della teologia sistematica, approfondisce la trama biblica. La teologia sistematica, benché alimentata dalla teologia biblica, è svincolata dal tempo. Quanto alla teologia biblica, Don Carson sostiene che essa
è più vicina della teologia sistematica al testo, mirando al raggiungimento di un genuino pragmatismo rispetto al carattere distintivo di ciascun corpus, e cercando di connettere i diversi corpora, a seconda delle categorie di appartenenza. Idealmente, quindi, la teologia biblica si pone come una sorta di disciplina che collega una esegesi responsabile a una ponderata teologia sistematica (sebbene si influenzino inevitabilmente a vicenda). 2
In altre parole, la teologia biblica si limita più intenzionalmente al messaggio del testo o del corpus preso in considerazione. Si interroga su quali siano i temi chiave per gli scrittori biblici, ponendoli nel relativo background storico, e cerca di mettere in rilievo il reciproco legame tra loro. Si concentra sul filo conduttore delle Scritture, sullo sviluppo del piano di Dio nella storia della redenzione. Come osserveremo più esaustivamente nella terza parte di questo articolo, ciò significa che non dovremmo interpretare, e di conseguenza predicare, su un testo, prima di averlo inserito nel contesto attinente all’intera trama biblica.
La teologia sistematica, viceversa, sottopone il testo a questioni che riflettono le richieste o le preoccupazioni filosofiche del momento. I teologi sistematici possono anche – mossi da buoni fini – esplorare temi che sono sottintesi negli scritti biblici, ma senza porre eccessiva attenzione verso il testo biblico. Ad ogni modo, è evidente che qualsiasi teologia sistematica degna di questo nome affondi le proprie radici nella teologia biblica.
L’elemento distintivo della teologia biblica, come osserva Brian Rosner, è che essa «lascia che sia il testo biblico a stabilire le priorità».3 Dal canto suo, Kevin Vanhoozer esprime in maniera chiara il ruolo specifico della teologia biblica, quando afferma che «l’espressione ’teologia biblica’ designa un approccio interpretativo alla Bibbia, il cui postulato è che la Parola di Dio, dal punto di vista testuale, viene mediata, e storicamente condizionata, attraverso i vari generi letterari in uso tra gli esseri umani»4 ovvero «per dirla in maniera più concreta, la teologia biblica coincide con gli interessi dei testi stessi».5
Il già menzionato Carson, ben esprime il contributo della teologia biblica:
Ma idealmente, la teologia biblica, come suggerisce il suo nome, quantunque operi sul piano induttivo, partendo dai diversi testi della Bibbia, cerca di scoprire e coordinare l’unità di tutti i testi biblici presi insieme, ricorrendo principalmente alle categorie letterarie di quegli testi stessi. In tal senso, essa è teologia biblica canonica, ovvero la teologia che ha per assioma “la Bibbia e solo la Bibbia”. 6
Si può fare della sana teologia biblica anche limitandosi alla sola Genesi, a tutto il Pentateuco, al solo vangelo di Matteo, all’epistola ai Romani o a tutto il corpus paolino. Nondimeno, essa è più rigorosamente sviluppata quando ha come campo d’azione l’intero canone delle Scritture, poiché la trama biblica si sviluppa nel complesso. Certi predicatori espositivi si limitano frequentemente a esaminare il Levitico, Matteo o l’Apocalisse, senza scandagliare il contesto, compreso quello geopolitico, in cui prese forma la storia della redenzione. Isolano le Scritture in scomparti a sé stanti, predicando a settori, invece di proclamare l’intero consiglio di Dio. Gerhard Hasel nota giustamente che dobbiamo fare teologia biblica in un modo «che cerchi di rendere giustizia a tutte le dimensioni della realtà della quale testimoniano i testi biblici».7 Fare questo tipo di teologia non è compito esclusivo dei docenti del seminario: è una responsabilità che grava su chiunque predichi la Parola di Dio!
Ma ritorniamo alle differenze tra teologia sistematica e teologia biblica, per la quale Carson fornisce lo schema del percorso.8 La teologia sistematica apprezza ed esalta il contributo della teologia storica, e perciò attinge alle opere di Agostino, Tommaso d’Aquino, Lutero, Calvino, Edwards e molti altri, nel formulare la dottrina biblica. Essa cerca di applicare la Parola di Dio direttamente nel nostro ambiente culturale e ai nostri giorni. E’ ovvio, pertanto, che ogni buon predicatore debba essere esperto di teologia sistematica, per annunciare una parola profonda e potente ai suoi contemporanei. La teologia biblica, invece, è orientata verso un procedimento logico e più essenziale. Carson afferma giustamente che la teologia biblica è una “disciplina di mediazione”, mentre definisce la teologia sistematica una “disciplina culminante”. Possiamo dunque dire che la teologia biblica è una scienza intermedia, che funge da collegamento tra lo studio storico-letterario della Scrittura e la teologia dogmatica. In altri termini, la prima si muove partendo dal testo, collocato nel suo contesto storico. Ciò non significa che la teologia biblica sia un’impresa puramente neutrale o impersonale. L’idea di poter scindere ordinatamente ciò che significava da ciò che essa vuole comunicare, come sosteneva Krister Stendahl, è un’utopia.
Ecco il parere di Scobie sulla teologia biblica:
I suoi presupposti, basati su un impegno di fede cristiana, includono il convincimento che la Bibbia trasmetta una rivelazione divina, che la Parola di Dio riportata dalla Scrittura costituisca la norma di fede e della vita pratica del cristiano, e che tutto il materiale vetero e neotestamentario possa in qualche modo essere collegato al piano e allo scopo dell’unico Dio di tutta la Bibbia. Tale teologia biblica si pone a metà strada tra ciò che la Bibbia “intendeva” e ciò che “significa”. 9
Ne consegue, perciò, che la teologia biblica non è circoscritta al Nuovo o all’Antico Testamento, ma considera entrambi, in una veduta d’insieme, quali inerrante e divinamente ispirata Parola di Dio. C’è di più: la vera teologia biblica è costruita, avendolo eletto a propria inderogabile regola, sul canone delle Scritture, e sono indispensabili entrambi i Testamenti per poterla studiare e approfondire correttamente.
METTERE D’ACCORDO L’ ANTICO E IL NUOVO TESTAMENTO
Tra l’Antico e il Nuovo Testamento esiste un sublime scambio dialettico, nel fare teologia biblica. Il Nuovo Testamento è la vetta a cui assurge la storia della redenzione iniziata nell’Antico Testamento, per cui la teologia biblica è, per sua definizione, una teologia narrativa. Essa cattura la storia dell’opera salvifica di Dio nel racconto. Lo svolgimento storico di ciò che Dio ha fatto può essere descritto come la storia della salvezza o la storia della redenzione. È utile anche vagliare le Scritture dal punto di vista della promessa e del compimento: ciò che nell’Antico Testamento viene promesso, è adempiuto nel Nuovo. Bisogna stare attenti a non cancellare la particolarità storica della rivelazione anticotestamentaria, in modo da tenere nella giusta considerazione il substrato storico in cui essa è nata. Dall’altro lato, bisogna saper distinguere il continuo crescendo della rivelazione, dall’Antico al Nuovo Testamento. Ciò equivale a riconoscere il carattere propedeutico dell’intera narrazione veterotestamentaria, la quale converge verso la piena e finale rivelazione descritta nelle pagine del Nuovo Testamento. Definire l’Antico Testamento “preparatorio” non menoma in alcun modo il ruolo decisivo ch’esso ha nella storia della redenzione; al contrario, comprenderemo il Nuovo Testamento solo quando avremo afferrato il significato dell’Antico e viceversa. Quest’ultima affermazione ci rimanda alla tipologia biblica, della quale taluni appaiono restii ad ammettere l’importanza. Eppure, questo approccio ermeneutico è basilare per fare della buona teologia biblica, giacché gli stessi scrittori biblici, nell’esporre il loro pensiero, si servirono di tipi.10
Ma che cos’è la tipologia?
E’ quella disciplina che si occupa delle corrispondenze, volute da Dio, tra eventi, persone e istituzioni dell’Antico Testamento e il loro adempimento in Cristo, avvenuto nel Nuovo.11 Abbiamo un chiaro esempio tipologico nel vangelo di Matteo, che ravvisa nell’esodo di Israele dall’Egitto, un tipo del ritorno dall’Egitto di Maria, Giuseppe e Gesù (Matteo 2:15; Es. 4:22-23; Os. 11:1). Ovvio che non solo gli scrittori neotestamentari hanno notare tali “similitudini divinamente predisposte”. Gli scrittori veterotestamentari hanno fatto altrettanto. Tra gli altri, citiamo i profeti Isaia e Osea, che predissero un nuovo esodo, che avrebbe avute le stesse caratteristiche di quello guidato da Mosè. L’Antico Testamento profetizza anche l’avvento di un altro Davide, più illustre del primo. Nelle Scritture, pertanto, c’è un crescendo tipologico, dove l’antitipo è più eminente e degno di onore del suo tipo. Prendiamo Gesù: Egli non è solo un altro Davide, ma è il più eccelso Davide. Così, la tipologia vede nella storia dell’uomo un prototipo e uno scopo divini. Dio è l’Autore finale delle Scritture, la storia è un dramma divino. E, dal momento che Egli annuncia la fine sin dal principio, concede a noi lettori odierni di scrutare, dietro le ombre menzionate nell’Antico Testamento, le rispettive realtà, vale a dire la loro conclusiva realizzazione (cfr. Ebr. 10:1 e 12:27. n.d.t.).
L’anamnesi: come fare teologia biblica nella predicazione (parte terza)
Quando si predicano le Scritture, è imprescindibile intuire su quale linea temporale della storica redentiva si posiziona il libro che stiamo esaminando. A rischio di semplificare eccessivamente, azzardiamo col dire che, per fare della buona teologia biblica nella predicazione, bisogna rispettare due regole fondamentali: guardare prima dietro e poi guardare il tutto.
LO SGUARDO RETROSPETTIVO: LA TEOLOGIA DELL’ANTEFATTO
Walter Kaiser ci ricorda che, mentre predichiamo le Scritture, dobbiamo considerare la teologia antecedente di ogni libro biblico.12 Ad esempio, se, in un sermone sull’Esodo, separiamo il libro dalle narrazioni della Genesi, non intenderemo correttamente il messaggio che esso vuole comunicare. Dalla Genesi apprendiamo che Dio è il creatore di tutte le cose e che ha creato gli esseri umani a sua immagine, in modo che essi potessero estendere il dominio del Signore su tutto il mondo. Ma Adamo ed Eva non confidarono pienamente in Dio e disubbidirono al comando divino. La creazione fu contaminata dal peccato “originale”, grazie al quale la morte e l’infelicità fecero il loro ingresso nel mondo. Nondimeno, il Signore promise che la vittoria finale sarebbe stata ottenuta per mezzo dela progenie della donna (Gen. 3:15). Tra la discendenza della donna e quella del serpente, in altre parole, ci sarebbe stata perennemente un’aspra lotta, nella quale avrebbe però prevalso la prima. Nel prosieguo della Genesi, c’è lo svolgersi del combattimento tra il seme della donna e quello del serpente, con la triste realtà che la stirpe del serpente è straordinariamente forte. Caino uccide Abele e i malvagi diventano molto più numerosi dei giusti: solo Noè e la sua famiglia godono del favore di Dio. In seguito, gli esseri umani ordiscono un complotto per stabilire la propria autorità, meaidnate la costruzione della torre di Babele.
Ma Signore è sovrano. Egli castiga Caino e distrugge l’empia razza umana per mezzo del diluvio, risparmiando solo Noè e la sua famiglia, otto persone in tutto, dopodiché vanifica gli ambiziosi disegni e le speranze degli uomini a Babele, confondendo i loro linguaggi. La narrazione continua, mostrandoci Dio che stringe un patto con Abramo, Isacco e Giacobbe; l’impegno preso è far sì che la vittoria promessa in Gen. 3:15 sia ottenuta, ma dalla loro discendenza, che diventerà numerosa, ricca e possente, anche dal punto di vista materiale. Il libro della Genesi si concentra in modo prospettico sulla parola data da Dio, parola che avrà sicuro compimento, ma nelle generazioni successive. Insomma, non sarano i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe ad entrare in possesso della terra promessa e non sarà la loro famiglia ad essere di benedizione per il mondo intero. Da ultimo, l’epilogo, con il racconto dei dodici figli dati dal Signore a Giacobbe, chiamato Israele.
Ma la domanda è: perché, per interpretare correttamente il libro dell’Esodo, è fondamentale conoscere la “teologia antecedente” della Genesi? La risposta è già nel verso 7 del primo capitolo dell’Esodo, in cui è ricordata la realizzazione della promessa fatta ad Abraamo, di una discendenza prolifica. Non solo: rileggendo il terzo capitolo della Genesi, notiamo anche la similitudine tra faraone e la progenie del serpente, della quale egli è figura, laddove Israele incarna quella della donna. Il tentativo del faraone di uccidere tutti i bambini maschi, simboleggia le macchinazioni della generazione del serpente, mentre la battaglia tra le due generazioni prosegue senza quartiere, come preannunciato dalla Genesi.
Continuando a scorrere il libro dell’Esodo e il resto del Pentateuco, vediamo che la liberazione di Israele dall’Egitto e la promessa della conquista di Canaan rappresentano anche il perfezionamento dell’alleanza del Signore con Abraamo. L’annuncio di una terra in cui abitare comincia a materializzarsi. Ora, in un certo senso, Israele è come un nuovo Adamo in una nuova patria e, così come il suo progenitore, deve vivere nella fede e nell’obbedienza, secondo le leggi impostegli dal Signore.
Ora, se dovessimo interpretare l’Esodo senza conoscere il messaggio precedente della Genesi, non percepiremmo il significato intimo della narrazione. Leggeremmo, cioè, il testo disgiuntamente dal suo contesto, incorrendo in una lettura indebita, che darà inevitabilmente luogo a false interpretazioni. L’importanza della teologia del trascorso è palese in tutto il canone biblico; qui ci limitiamo a fornirne pochi altri esempi.
- La conquista di Giosuè va interpretata con l’occhio rivolto al patto con Abraamo. Il possesso di Canaan è quindi l’adempimento della promessa, fatta al patriarca, di trarre benefici dal suolo canaaneo.
- Gli esili forzati dei due regni in cui si era scisso Israele, prima quello del nord (722 a.C.) e poi quello di Giuda (586 a. C), preannunciati dai profeti e rievocati in diversi libri delle Scritture, rappresentano l’adempimento delle maledizioni legate all’alleanza di cui parlano Levitico 26 e Deuteronomio 27-28. Se i predicatori, e le chiese, non sanno la teologia precedente riguardante l’Alleanza mosaica e le maledizioni minacciate nella Legge, difficilmente potranno comprendere le deportazioni di Israele e di Giuda.
- La venuta di un futuro Davide rimanda al patto precedentemente concluso con il re Davide, dove il Signore assicura l’esistenza di uno che sieda sul suo trono, in perpetuo.
- Il Giorno del Signore, cui viene dato così tanto risalto negli scritti dei profeti, deve essere interpretato alla luce della promessa fatta ad Abramo.
Naturalmente, lo stesso metodo si applica anche al Nuovo Testamento.
- Non capiremo l’ importanza del regno di Dio nei vangeli sinottici senza conoscere la trama dell’Antico Testamento e ignorando i patti e le promesse fatte da Dio al popolo d’Israele.
- Il valore di Gesù quale Messia, Figlio dell’Uomo e Figlio di Dio, ha il suo humus nelle profezie veterotestamentarie.
- Il libro degli Atti, come accenna Luca nella sua introduzione, è il sèguito di quello che Gesù cominciò a fare e insegnare, ed è quindi imbevuto tanto dell’Antico Testamento quanto del ministero, dalla morte e dalla risurrezione di Gesù.
- Anche le epistole sviluppano la loro teologia partendo dalla maestosa opera di salvezza compiuta da Gesù Cristo, spiegando e applicando il messaggio della grazia e l’adempimento delle promesse di Dio alle chiese costituite.
- In conclusione, l’Apocalisse va intesa come il vertice della storia biblica e umana. Non è un mero poscritto, aggiunto per dare alle Scritture un finale ad effetto. I suoi numerosi riferimenti all’Antico Testamento dimostrano che ha come sfondo la rivelazione veterotestamentaria. L’Apocalisse non ha senso se non si capisce che in essa è descritto il compimento di tutto ciò che Gesù Cristo ha fatto e insegnato.
Questo non vuol dire che la storia della redenzione abbia lo stesso ruolo centrale in tutti i libri del canone. Pensiamo, ad esempio, ai libri sapienziali, come il Cantico di Salomone, Giobbe, Ecclesiaste, Proverbi e Salmi. Tuttavia, anche qui, gli autori biblici hanno come premessa le verità fondamentali presentate dalla Genesi, come la creazione, la caduta di Adamo e la posizione speciale di Israele quale popolo prescelto da Dio. A volte, essi accennano chiaramente a tale privilegio, come nei Salmi, che raccontano la storia di Israele. Comunque, dobbiamo sempre tener presente la pluralità tematica del canone e che non tutti i testi hanno le medesime finalità.
In breve, i predicatori devono aver costantemente cura di predicare inserendo i loro sermoni nel più ampio contesto biblico della storia della redenzione. I fedeli nei banchi devono poter recepire il quadro generale di ciò che Dio ha fatto e come ogni parte delle Scritture contribuisca a dar vita a quel meraviglioso mosaico. Questo ci porta a considerare quello che si chiama …
LO SGUARDO GLOBALE — LA PREDICAZIONE SECONDO IL CANONE
Come messaggeri della Parola di Dio, non dobbiamo limitarci alla teologia dell’antefatto, ma bensì considerare la Scrittura nel suo complesso, la testimonianza canonica che ora abbiamo nel ministero, nella morte e nella risurrezione di Gesù Cristo. Se proclamiamo solo quella teologia, non taglieremo mai rettamente la Parola della verità e non porgeremo mai in modo confacente il messaggio del Signore ai nostri contemporanei. Per essere più concreti, se nel nostro sermone esaminiamo i capitoli iniziali della Genesi, non dobbiamo esimerci dal predicare che il seme della donna è Gesù Cristo e che il creato, sottoposto a vanità a causa dell’ingresso del peccato nel mondo, sarà liberato grazie all’opera di Gesù Cristo (Rom 8:18-25). Gli ascoltanti devono poter realizzare che il vecchio creato non si estinguerà nella corruzione, ma che Dio darà vita a una nuova creazione in Cristo Gesù. Dobbiamo mostrare loro, servendoci del libro dell’Apocalisse, che la fine sarà migliore dell’inizio e che le benedizioni della creazione originale saranno, per così dire, sovradimensionate, nella nuova creazione.
Analogamente, mai predicare sul Levitico senza averlo esplorato tenendo conto del suo adempimento in Cristo. Dobbiamo proclamare con forza che le “ombre” dei rituali veterotestamentari sono divenute “realtà” grazie all’opera del Signore Gesù sulla croce. Inoltre, vanno correttamente interpretate le varie prescrizioni sul regime alimentare e sull’igiene personale, in modo da far capire che il Signore non ci chiama a una semplice osservanza di regole alimentari o igieniche. Quelle norme, in altre parole, additano qualcosa di più importante: la santità e la vita nuova che dobbiamo vivere noi cristiani (1 Cor. 5:6-8; 1 Pie. 1:15-16). E, più di ogni altra cosa, non dobbiamo stancarci di predicare, come chiaramente insegnato dal Nuovo Testamento, che i credenti non sono più sotto la legge mosaica (Gal. 3:15-4:7; 2 Cor. 3:7-18). L’Antico Patto doveva rimanere in vigore solo per un certo periodo di storia della salvezza, ma ora che l’adempimento in Cristo è una realtà, non siamo più sotto l’alleanza che il Signore fece con Israele. Pertanto, è sbagliato pensare che gli stati moderni debbano essere governati secondo le leggi che regolavano la vita sociale e cultuale dell’Israele terreno, come pretendono i patrocinatori della teonomia 13 ai nostri giorni.
Nei nostri sermoni dobbiamo operare la giusta distinzione tra l’Israele “secondo la carne” e la Chiesa di Gesù Cristo. Nel primo caso, avevamo un governo teocratico del popolo, che era sia la nazione del patto con l’Eterno sia un’entità politica. Ma la Chiesa di Gesù Cristo non ha nulla a che vedere con la politica e non necessita di una carta costituzionale, intesa in senso strettamente istituzionale. Essa è formata da persone di ogni popolo, lingua, tribù e nazione. Se non facciamo rilevare ai fedeli la differenza tra Antico e Nuovo patto, rischiamo di causare un disastro nelle nostre congregazioni, e se noi stessi non abbiamo afferrato le differenze tra antico e nuovo patto, ci troveremo in difficoltà su alcuni punti biblici, ad esempio, dove si parla della conquista di Canaan, da parte di Giosuè. Alla Chiesa di Gesù Cristo non è stato mai promesso che un giorno riceverà la terra di Canaan! Questa è innanzitutto una promessa da intendersi tipologicamente, che si va sempre più consolidando verso il suo finale compimento, nel Nuovo Testamento. L’epistola agli Ebrei spiega che la promessa del riposo fatta a Giosuè non è mai stata concepita come riposo finale per il popolo di Dio (Eb 3:7-4:13), e Paolo dice che la terra promessa ad Abramo non può essere confinata al paese di Canaan ma è da estendersi al mondo intero (Romani 4:13). Lo scrittore agli Ebrei afferma che noi, come credenti, non aspettiamo una città terrena, ma celeste, di là da venire (Ebr. 11:10, 14-16;13:14). Città che Giovanni, in Apocalisse 21-22, chiama “Gerusalemme celeste”, e che è figura simbolica della nuova creazione. Quindi, se predichiamo su un testo tratto dal libro di Giosuè senza dar risalto all’eredità che possediamo in Cristo e alla nuova creazione, avremo fallito miseramente nel rimarcare uno dei temi centrali del libro. Il messaggio risulterà mutilato, e il gregge non noterà che la piena realizzazione di tutta la Scrittura è in Cristo, né che tutte le promesse di Dio sono “sì” e “amen” in Lui (2 Cor. 1:20). Se predichiamo le Scritture come si conviene, cioè utilizzando la teologia biblica, proclameremo Cristo sia dall’Antico Testamento che dal Nuovo. Logicamente, dovremo allegorizzare il testo in esame nella giusta misura, evitando di fare collegamenti inappropriati tra i due testamenti. Se applicheremo opportunamente i principi basilari della teologia biblica e ci ispireremo all’approccio ermeneutico degli scrittori apostolici, non incorreremo in simili errori. Dopo tutto, gli autori sacri credevano che Cristo era il cuore della rivelazione veterotestamentaria, e che l’Antico Patto si era adempito nella sua Persona. D’altronde, Gesù Cristo stesso insegnò loro ad applicare una sana ermeneutica alle Scritture, per esempio, quando aprì le Scritture a Cleopa e al suo amico, sulla via di Emmaus (Luca 24).
A questo proposito, alcuni hanno sostenuto che, sebbene l’ermeneutica degli apostoli sia stata ispirata, oggi non dovrebbe essere imitata.14 Un simile punto di vista è quantomeno inopportuno, poiché insinua che il compimento che gli apostoli vedevano nell’Antico Testamento non concorda con il reale significato dei testi sacri. Se così fosse, le equivalenze riscontrate tra i due testamenti sarebbero da considerarsi ingiustificate, e gli apostoli (e persino Cristo stesso!) cesserebbero di essere gli esempi cui attenersi per interpretare oggi l’Antico Testamento. Invece, se crediamo che gli apostoli furono ispirati e saggi lettori dell’Antico Testamento, allora abbiamo in loro il modello sul quale leggere tutto l’Antico Testamento, sulla scorta del suo adempimento, realizzatosi in Gesù Cristo. La trama e la composizione letteraria dell’Antico Testamento puntano inequivocabilmente su Cristo e in Lui si realizzano.15 Quando leggiamo della promessa fatta ad Abramo, nell’Antico Testamento, ci rendiamo conto che si è adempiuta in Cristo Gesù. Le ombre dei sacrifici dell’Antico Testamento trovano la loro sostanza in Cristo. Per esempio:
- Le feste ebraiche della Pasqua, di Pentecoste e dei Tabernacoli, indicano rispettivamente Cristo come vero sacrificio pasquale, il dono dello Spirito e Gesù quale Luce del mondo.
- Ai credenti non è più richiesto di osservare il sabato, essendo anch’esso una delle ombre dell’Antico Patto (Col 2:16-17, Rom. 14:5) stretto con Mosè sul Sinai e non più in vigore per i cristiani (Gal 3:15-4:7, 2 Cor. 3:4-18, Ebr. 7:11-10:18). Il sabato, oggi, è il trepidante preludio al riposo celeste, garantito in Cristo ai credenti e che diventerà una realtà eterna al ritorno del Signore (Ebr. 3:12-4:11).
- Il tempio è figura di Cristo, vero tempio, mentre la circoncisione fisica trova il suo perfezionamento nella circoncisione del cuore, saldamente legata alla croce di Cristo e assicurata dall’opera dello Spirito.
- Il regno di Davide, uomo secondo il cuore di Dio, non è il regno perfetto; l’uomo è solo un tipo di Gesù Cristo, il Davide più eccelso, l’uomo senza peccato. Egli è il re messianico che, per mezzo del suo ministero, della sua morte e della sua risurrezione, ha reso possibili le promesse fatte da Dio al suo popolo.
Se non predichiamo l’Antico Testamento considerando il canone biblico nella sua globalità, o ci limiteremo a dare lezioni di etica, tratte dall’Antico Testamento, oppure, cosa altrettanto probabile, ridimensioneremo il valore e la portata di questa importantissima sezione scritturale. Come cristiani, siamo consapevoli che gran parte dell’Antico Testamento non fu scritto per le circostanze attuali. Per intenderci, non è che Dio promette di liberarci dalla schiavitù politica, come fece con Israele in Egitto. Oggi Israele è politicamente travagliato, ma i cristiani non credono che la loro gioia verrà dal vivere in Israele, né pensano che l’adorazione consista nel recarsi al tempio per offrire sacrifici. Perciò, se non predichiamo l’Antico Testamento con uno sguardo e una mente aperti a tutte le Scritture, e alla luce della teologia biblica, la predicazione cristiana ne soffrirà danno. Non solo ci priveremo dei tesori meravigliosi contenuti nella Parola di Dio, ma non riusciremo nemmeno a vedere la profondità e il carattere sfaccettato che contraddistingue la rivelazione biblica. Ci troveremo, cioè, a leggere l’Antico Testamento in maniera differente da come hanno fatto Gesù e gli apostoli, per cui non potremo appurare de visu che le promesse di Dio sono “sì” e “amen” in Cristo.
La lettura canonica dell’Antico Testamento non significa che esso non viene letto nel suo contesto culturale storico. Il primo compito di ogni interprete è leggere l’Antico Testamento riuscendo a cogliere il senso che l’autore biblico voleva comunicare ai suoi lettori originali. Inoltre, come abbiamo detto sopra, ogni libro dell’Antico Testamento va letto considerando libro precedente, in modo da comprendere la trama generale delle Scritture. Però dobbiamo anche leggere canonicamente anche tutte le Scritture, ovvero facendo si che l’Antico Testamento sia letto tenendo presente l’intero corpus biblico, il cui punto finale è Gesù Cristo. A chiusura, ci permettiamo di dare tre consigli: considerare sempre il punto di vista globale dell’autore divino nel fare teologia biblica e nel predicare la Parola di Dio, leggere le Scritture sia dal primo all’ultimo libro, che dal primo al successivo e esaminare sempre tanto la narrazione nel suo sviluppo quanto nel suo epilogo.
CONCLUSIONE
Il compito di noi predicatori è annunciare tutto il consiglio di Dio. Non assolveremo alla nostra chiamata, se non saremo in grado di fare teologia biblica. Magari, il nostro uditorio si complimenterà con noi per gli insegnamenti morali ricevuti e per gli aneddoti che abbiamo raccontato, ma non avremo servito fedelmente la comunità se i credenti non capiranno che tutta la Scrittura ruota intorno a Cristo, e se non saremo stati capaci di porger loro una migliore comprensione della narrazione biblica. Dio ci aiuti ad essere insegnanti e predicatori fedeli, affinché ogni anima affidataci possa essere “presentata perfetta in Cristo”.
Tradotto da Coram Deo in Italia. Visita il loro sito per accedere alle risorse disponibili.